VITTORIO VENETO – LA TRADIZIONE DEL PANEVIN E DELLA PINZA

Come recita il vecchio saggio: “mejo brusar un paese che perder na tradizhion” che tradotto significa che è meglio bruciare un paese piuttosto che perdere una tradizione.

Ed è il caso dell’usanza Vittoriese, di bruciare il panevìn alla vigilia dell’Epifania. Una di quelle tradizioni da tramandare assolutamente perchè segnano un legame indissolubile tra persone, storia e territorio. E anche enogastronomia (come sempre!)

E’ una tradizione molto diffusa in tutto il Nord-Est. A seconda del territorio in cui si accendono i vari falò il panevìn si può chiamare anche brusa la vecia, casere, pignarul, foghere.. insomma, ogni zona ha il suo nome. E soprattutto ogni borgo aveva la sua pira di legna da bruciare. Oggi, ahimè, causa inquinamento e mancanza di legame con questa tradizione i panevìn sono sempre meno e creati dalle associazioni presenti sul territorio, non più dai privati. Ma l’importante è continuare a farli. E a raccontarli.

Se continuate nella lettura potrete scoprire la storia e le tradizioni che si celano dietro a questo falò, dalle radici antichissime.

IL PANEVIN

Partiamo dal presupposto che il panevìn è una sorta di rito propiziatorio pagano-cristiano.

L’origine è da ricondursi ai riti pagani, quando nel periodo Celtico, questa terra era popolata dai Veneti. I falò coincidevano con il solstizio d’inverno, ed evocavano il ritorno della luce e quindi del sole, sulla terra. La fine del periodo buio e l’allungarsi delle ore di luce sulle tenebre.

Con l’avvento del Cristianesimo però, questa usanza è stata spostata al giorno dell’Epifania, perchè, tradizione vuole, che i falò avessero aiutato i magi a trovare la via verso Betlemme, quando si persero nelle terre Venete.

Il panevìn è sostanzialmente un cumulo di rami, legna e sterpaglie, sulla cui sommità spesso viene messo un fantoccio con le sembianze di una vecchia e che viene bruciato.  Il legno, in genere, sono i rimasugli dell’agricoltura e la vecchia che viene bruciata rappresenta l’anno appena passato e tutte le sue avversità, che quindi devono essere eliminate in vista del nuovo e si spera migliore, anno. A fare da base per questa catasta di legna e sterpaglie ci sono in genere tre pali che rappresentano i tre Re Magi e anche la Santissima Trinità. Tradizione vuole che non si possano rimuovere i pali prima di otto giorni, cioè fino all’ottava di Epifania che commemora il Battesimo di Gesù. Pena: carestie e febbri.

I riti del fuoco, in questo periodo di tenebre prima della luce (intendo il solstizio eh), che un tempo era celebrato il 25 dicembre, erano davvero molti e se ne trovano un po’ in tutta Europa. In Belgio, In Austria in Francia, ecc… Quelli che mi vengono in mente, nelle varie ricerche che ho fatto sono per esempio il Dies natalis Solis Invicti, quando il 25 dicembre i romani celebravano la nascita del Sole. Oppure le celebrazioni dei Saturnalia, quando il Dio Saturno che rappresentava la fertilità veniva ucciso per rinascere più forte. Un po’ come la nostra Vecia che viene bruciata per avere un anno nuovo migliore. O ancora i riti dei Celti, che invocavano il Dio Baleno, trasmigrazione del calore che da vita alla terra e i cui culti invocavano la fertilità in agricoltura

Ma il rituale del fuoco che più mi ha colpito mentre mi documentavo è il zhoc de Nadhàl, il ceppo di Natale. E mi ha colpito perchè lo usiamo tutt’ora in casa. Consiste in un grosso ceppo che veniva messo sul larìn o sul caminetto alla Vigilia di Natale e rimaneva acceso per tutta la notte e per i 12 giorni successivi, fino al 5 gennaio, quando con le bronzhe, le braci, veniva acceso il panevìn. E’ tutta una questione di simbologia. I 12 giorni rappresentavano i 12 mesi dell’anno, il ciclo completo dell’agricoltura che doveva essere di auspicio per un buon raccolto. Ora non so se mio papà sapeva di questa storia, ma sta di fatto che ogni Natale, e a seconda delle dimensioni del ceppo a volte proprio fino all’Epifania, sul caminetto di casa mette sempre questo zhoc de Nadal.

Il nome stesso del PaneVin (cioè pane e vino) ci riconduce alla simbologia di quanto questo sia un rito propiziatorio per il nuovo anno. Ci si augura infatti che sia ricco di pane e di vino e la direzione delle faville del falò stanno ad indicare proprio questo, l’andamento del nuovo anno. 

Quando si accende il Panevìn e soprattutto quando comincia ad ardere e a fare fumo e scintille, partono i “pronosteghi” cioè dei “canti propiziatori”.

Una delle canzoni tipiche da cantare intorno al panevin (nella sua versione Vittoriese) è questa:

“Stringhe stringhe bigatèle / che le biave vegne bele / da lontan / da vizin / evviva, evviva el panevìn / la pinza sul larin / Dio ne dae la sanità / el panevìn” E poi a volte, la si continua con “La pinza sul larin / la poenta sul fondal / al vin in tel bocal / evviva carneval”

Le faville, erano rivelatrici sul futuro dell’anno appena cominciato: 

“Se al fun al va a matina / ciol su al sac e va a farina / e se al fun al va a sera / poenta a pien cagliera. / Se al fun al va a mezzodì / poenta cussì cussì”

Tradotto significa che se le faville (o il fumo) vanno verso “mattina” bisogna prendere il sacco e andare a farina. Cioè se il fumo va verso dove sorge il sole (a est) bisogna darsi da fare perchè sarà un anno duro e il raccolto agricolo ben scarso. Se al contrario vanno verso “sera” cioè verso dove tramonta il sole (a ovest), sarà un anno con un raccolto ricco e abbondante. Se il fumo invece sale dritto, sarà un anno così-così.

E c’è una spiegazione plausibile anche sull’andamento delle faville. E le teorie sono due. La più fantasiosa è da rimandare alle invasioni barbariche, di cui il nostro territorio è stato molte volte il fulcro. Spesso infatti penetravano da Oriente, lasciando la devastazione per arrivare alla conquista delle terre a Occidente, verso la ricca e rigogliosa pianura Veneta. Quindi nell’immaginario collettivo si potevano vedere a est le annate scarse e a ovest le annate abbondanti. Ma la teoria più plausibile credo sia quella degli endegàri, una sorta di previsioni che facevano i veci in base ai venti che spirano in zona. Da tempi immemori si sa che il libeccio che spira in direzione sud-ovest annuncia pioggia mentre il vento furlàn che spira da nord a est, porta tempo asciutto e quindi terreno arido.

Insomma il panevìn resta il simbolo di un passato (non troppo lontano) e forse anche di qualche presente, la cui religiosità sapeva accostare sia i valori cristiani e che quelli pagani.

E mentre il panevìn arde, tradizione vuole che ci si raccolga tutti intorno in cerchio a mangiare la pinza e a bere vin brulè. In cerchio perchè questa figura rappresenta l’immagine della divinità.

LA PINZA

La pinza (in dialetto la pinzha) è un dolce tipico della zona trevigiana e viene prodotto SOLO in questo periodo. E’ tradizione mangiarla insieme ad un buon bicchiere di vin brulè perchè è un dolce “secco e da inzuppo”, difficile da mandare giù senza qualche liquido. 

Non esiste una ricetta precisa, perchè ogni famiglia ha la sua, tramandata di generazione in generazione. 

Gli ingredienti base sono farina, zucchero, uova, latte, burro (o ancora meglio strutto), sale, uva passa e farina da polenta. A cui si aggiungono a seconda della ricetta: mele, scorza d’arancia, fichi secchi, pinoli, canditi, noci, grappa, nocciole, zucca, ecc…insomma, tutto quello che si trovava in dispensa perchè “l’abbondanza fa abbondanza” ed essendo un rito propiziatorio questa cosa veniva presa in considerazione molto seriamente.

La pinza Vittoriese, a differenza delle altre nel Trevigiano, molto spesso ha l’aggiunta di lievito madre ed è molto, molto ma molto più ricca di ingredienti. 

Va cotta al forno o meglio ancora sotto la brace. 

Mia nonna, cucinava tutto nella cagliera da polenta per mantenerla umida e poi una passata veloce in forno (della stufa) per fare la “crosta” croccante. TOP. (sappiamo tutti che cos’è una cagliera vero??)

Concordate con me, che le tradizioni del panevìn e della pinzha siano così ricche di storia e di ricordi, da dover essere tramandate anche ai posteri?

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